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Cosa ne facciamo di questi spazi? I laboratori d’ideazione, le idee, il porsi delle sfide, gli archetipi e la ricerca di soluzioni come ingredienti della pratica dell’immaginazione

di Gaetano Quattromani


I laboratori d’ideazione del percorso di co-progettazione Ad Uso Civico e Collettivo si sono tenuti presso l’Ex-Opg – Je so’ pazzo e lo Scugnizzo Liberato il 13 e il 14 dicembre 2022, grazie alla squadra di figure esperte messa su da La Scuola Open Source. Scopo dei laboratori è stato quello di trovare delle risposte alla seguente sfida: «Come possiamo rispondere ai bisogni del quartiere aggregando le specificità di diversi attori di prossimità verso una visione di impatto comune?». Ciò che ne è venuto fuori si è rivelato uno svelamento del potenziale narrativo intrinseco al discorso dei beni comuni, e ha chiarito molto sul senso delle soluzioni pratiche ai problemi di gestione e di incontro che le relative comunità ricercano e mettono in piedi.


Se le vicende che sto raccontando nella serie di articoli sul percorso di co-progettazione Ad Uso Civico e Collettivo andassero a comporre una storia – in un certo senso, effettivamente è così – allora sarebbe una di quelle in cui il finale viene svelato già al principio del racconto. Quanto viene narrato, poi, procede ineluttabilmente in direzione di quel finale, e tutto corre e salta nella direzione di far avverare ciò che è stato già anticipato. Il finale della nostra storia consiste nell’evocazione di una visione per i due beni comuni, Ex-Opg – Je so pazzo e Scugnizzo Liberato: nitida, precisa, dettagliata e realistica. Nondimeno, si tratta di un prodotto immaginativo, dell’immaginazione congiunta di molti esseri umani: dell’immaginazione collettiva. La visione tratta di intersezioni, i punti in comune a insiemi differenti. Alcuni di questi insieme pertengono al mondo concreto dei bisogni delle persone, quelle che animano o frequentano i due spazi di Napoli, o ancora che abitano i quartieri che sorgono intorno ai due edifici, il centro storico e la città in generale. Altri fanno riferimento a una materia ulteriore, quella del possibile, della trasformazione, del decidere il verso della vita, individuale e collettiva. La visione è quella del futuro dei due beni comuni, e della città che sorge loro intorno, e delle vite possibili degli esseri umani considerate dal punto di vista dei bisogni e dei desideri: l’immagine di tante vite che si intersecano con le possibilità di un tessuto urbano. La visione in questione può essere assemblata, un pezzo alla volta, in laboratorio, un laboratorio d’ideazione, un laboratorio collettivo, ed è stata una sfida per chi vi ha preso parte. Tentiamo di capire insieme in cosa è consistita tale pratica laboratoriale, che ha avuto luogo separatamente nei due beni comuni, in due giorni diversi.

Moussa ha diciott’anni, è venuto dal Mali meno di un anno fa ed è nel circuito dell’accoglienza. Un ragazzo energico, pieno di allegria e di determinazione, con una fervida immaginazione. Parla il bambara, il francese e si è messo a imparare l’italiano: vorrebbe trovare casa, studiare, lavorare per aiutare la propria famiglia. Ha bisogno di supporto legale e di essere consigliato, di essere accolto e di vedere dispiegata una possibilità di vita imperniata sul rispetto dei diritti. Nell’immediato, necessita di superare le difficoltà linguistiche e di avere accesso al SSN per potersi curare dopo il lungo viaggio che ha compiuto.

Scrive György Lukács in Saggi sul realismo che «la norma fondamentale di Balzac è questa: elaborare i fattori determinanti più importanti della vita sociale mostrandoli nella loro evoluzione storica e nelle forme specifiche che essi assumono nei vari individui. È perciò che, attraverso singoli episodi dello svolgimento della vita sociale, egli riesce a dar espressione concreta alle grandi forze che determinano il senso dell’evoluzione sociale». Riuscire a dare conto dei grandi movimenti della storia attraverso il racconto delle vite minute ha rappresentato il successo artistico del maggiore degli scrittori francesi, in special modo perché la creatività della costruzione letteraria dei suoi personaggi non ha mai risentito della volontà dell’Autore di scrivere per esprimere un concetto. A titolo di esempio, ecco un brano, tratto da Illusioni perdute.

Astolfo passava per un erudito di prim’ordine. Ignorante come un ciuco, aveva tuttavia compilato le voci Zucchero e Acquavite per un dizionario di agricoltura, attingendo a piene mani da tutti gli articoli di giornali e da tutte le vecchie opere in cui si parlava di questi due prodotti. Tutto il dipartimento lo credeva impegnato a lavorare a un trattato sull’agricoltura moderna. Benché si chiudesse tutte le mattine nello studio, in dodici anni non aveva ancora scritto due pagine. Se qualcuno andava a trovarlo, si faceva sorprendere mentre scribacchiava delle carte, o mentre cercava qualcosa o affilava la penna; in realtà, occupava in stupidaggini tutto il tempo in cui rimaneva chiuso nello studio: leggeva il giornale da cima a fondo, intagliava turaccioli col temperino, tracciava bizzarri ghirigori sul sottomano, sfogliava Cicerone per cogliere qua e là una frase o un brano il cui senso potesse applicarsi agli avvenimenti del giorno; la sera, poi, faceva in modo di condurre la conversazione su un argomento che gli permettesse di dire: «In Cicerone c’è una pagina che sembra proprio sia stata scritta per ciò che accade ai nostri tempi». Recitava allora il brano fra lo stupore dei presenti, che dicevano fra loro: «Veramente Astolfo è un pozzo di scienza».

Balzac restituisce il ritratto arguto di un tipo possibile dell’intellettuale borghese, il signor Astolfo de Saintot, per pungere una categoria umana e sociale. Ne riassume dei tratti, realistici; ne indica un modo di stare al mondo, comune; e lo fa costruendo un tipo le cui caratteristiche sono espresse in modo indipendente dalla propria volontà. Infatti, se le posizioni politiche di Honoré de Balzac furono autenticamente antiborghesi, esse venivano però espresse da un punto di vista conservatore, aristocratico e nostalgico. E se persino Marx ed Engels, com’è noto, indicarono nel grande scrittore francese un punto di riferimento, ciò accadde perché il suo raccontare rimase sempre ostinatamente attaccato al reale: uno spazio narrativo per cui le convinzioni personali e ideologiche dell’Autore si confinano sullo sfondo affinché emerga non una pretesa oggettività, quanto un’idea di mondo meno pronunciata sul piano personale e che segue da presso la tipizzazione dei personaggi, una logica del senso più condivisa dalle altre persone, un prodotto storico dell’immaginazione che corrisponda a quanto effettivamente succede presso le forze che si muovono nella società, che sia magari in grado di interrogare il reale e di far interrogare, a loro volta, le persone che hanno accesso all’opera.

Friday, ventisei anni, una figlia di sei e uno di quattro, originaria della Nigeria, vorrebbe uscire dal circuito della tratta e ottenere aiuto per crescere i propri figli. E avrebbe desiderio di più tempo a disposizione per poter maturare degli interessi e definirsi come persona. Potrebbe diventare un elemento prezioso della comunità: parla yoruba, inglese, sta imparando l’italiano ed è una persona pronta ad assumersi delle responsabilità aiutando il prossimo. Ma Friday ha anzitutto bisogno di aiuto: assistenza legale e accesso alla tutela dei diritti.

Mi ci sono avvicinato partendo da molto lontano ma è il momento di definire i due concetti che rappresentano i principali strumenti da lavoro necessari per raccontare cosa sia stata la pratica del laboratorio d’ideazione, oggetto del racconto del presente articolo.

Il primo: l’idea che sia possibile pensare a dei costrutti, dei tipi, degli archetipi – come sono stati definiti durante lo svolgimento del laboratorio – che rechino con sé un portato descrittivo e narrativo rilevante, che siano cioè in grado di raccontare un aspetto del reale. Essi consistono davvero in esseri umani in carne e ossa? No, non esattamente. Sono delle rappresentazioni verosimili e veritiere del reale, ma non sono direttamente il reale. Tra loro e la realtà esiste una certa distanza; e però tale distanza offre, in un certo senso, delle opportunità rappresentative, delle possibilità narrative, e sta poi al giudizio personale credere che la specifica rappresentazione possegga un valore o che ne sia priva.

Il secondo: in questa distanza c’è lo spazio per lasciar emergere delle tensioni collettive, delle mozioni condivise, dei bisogni precostituzionali, un pendolo che oscilla tra il consapevole e l’involontario, quella stilla di determinazione storica e sociale che esiste in qualsiasi atto che compiamo come esseri umani che stanno al mondo, si tratti di qualcosa che pensiamo, che affermiamo, che mettiamo in opera e via dicendo.

«[…] uno spazio narrativo per cui le convinzioni personali e ideologiche dell’Autore si fanno da parte affinché emerga non una pretesa oggettività, quanto un’idea di mondo meno pronunciata sul piano personale, una logica del senso più condivisa dalle altre persone, un prodotto storico dell’immaginazione che corrisponda a quanto effettivamente succede presso le forze che si muovono nella società»

Compiuta questa lunga ma necessaria e – spero – divertente premessa, è tempo di tornare alla sfida presagita dal laboratorio d’ideazione e alla pratica laboratoriale stessa: «Come possiamo rispondere ai bisogni del quartiere aggregando le specificità di diversi attori di prossimità verso una visione di impatto comune?». Non ne basterebbero mille di articoli per esaurire una questione del genere. Al contempo, si tratta di un enigma così enorme, di una domanda tanto attuale, che bisogna per forza commentarla. Si tratta, anzitutto, della sfida che si pone a chiunque faccia politica oggi. A maggior ragione se ci riferiamo agli attivisti e alle attiviste che fanno politica dal basso, che s’impegnano nel mutualismo sui territori, che incontrano e connettono i desideri delle persone, che manifestano l’esigenza di costruire un rapporto riflettuto con i bisogni di queste ultime, con i loro desideri e i loro interessi materiali. Il reale che gli attivisti e le attiviste intercettano, il reale che abitano e dal quale provengono, si compone di un tessuto sociale sfribrato, smembrato, individualizzato, parcellizzato rispetto ai decenni che ci precedono.

Luca è un quarantenne che lavora come cameriere. Un mestiere faticoso che non gli lascia molto tempo libero; anche se si è avvicinato ai beni comuni per poter coltivare a coltivare la propria passione, la boxe, che pratica da molti anni. Gli piacerebbe uscire dalla precarietà della propria condizione lavorativa e sentirsi parte di una comunità: è un uomo che tende a stare bene con le altre persone e ricerca l’esperienza della compagnia e della vita collettiva. Grazie ai propri contatti con le palestre si dà un gran da fare per reperire materiali utili per la palestra liberata.

Non per cause naturali, evidentemente: sono gli effetti dell’applicazione delle politiche neoliberali per decenni, dell’aggressività competitiva assurta a fondamento della società, dello smantellamento dello stato sociale. Dietro la sfida che ho citato c’è la volontà tacita di deframmentare ciò che è stato confusamente separato e sparso andando a ricostruire un ordine sociale che torni ad appartenere a una dimensione coerente dell’umano: un’idea di quartiere, un’idea di territorio, un’idea di città, un’idea di comunità, da fare crescere intorno ai beni comuni e attraverso la loro azione territoriale.

E c’è perciò l’altro aspetto della sfida, che non può essere taciuto. Ho parlato di ricostruzione, ho suggerito l’idea della necessità di un ripristino, ma la verità è un’altra. Il mondo da costruire, quella visione di impatto comune che viene evocata dalla sfida, non è alle nostre spalle ma ci si situa dinanzi. Alla valutazione, alla riflessione, ciò viene imposto dalle forze che si muovono nella società; per meglio dire, dalle forze che accadono alla società. I bisogni di adesso, i desideri attuali, le nuove soggettività, le contraddizioni più stringenti, i conflitti più vivi sono ciò che si aggrega intorno all’Ex-Opg – Je so pazzo e allo Scugnizzo Liberato, ciò che permea le rispettive comunità e, allo stesso tempo, rappresenta la prima frontiera di rafforzamento e di allargamento di partecipazione delle attività delle stesse.

Moussa ha dieci anni e vive da sempre nel quartiere con la propria famiglia, originaria dello Sri Lanka: hanno qualche difficoltà economica da quando aiutano alla zia che si è trasferita con loro da poco. Moussa parla molte lingue, ama il cinema di animazione e vorrebbe imparare a disegnare. Le illustrazioni e la lettura sono le sue passioni, che riuscirebbe meglio a coltivare attraverso una biblioteca di quartiere. Va d’accordo con i coetanei e si spende sempre per trasmettere loro ciò che impara ma desidererebbe più occasioni per poter parlare dei libri che le piacciono.

Più di una traccia di lavoro, una vera e propria struttura, si è resa necessaria per consentire di mettere su, di tenere aperto e di attraversare un simile spazio di narrazione. Una struttura condivisa dai designer dei processi, la squadra di figure esperte di SOS, con l’Amministrazione e con le comunità dei beni comuni e la rete che riunisce gli spazi. La verosimiglianza dei personaggi raccontati e delle loro vite è garantita dal fatto che questo spazio di narrazione è stato imperniato sui risultati delle precedenti indagini e analisi – qui un resoconto della fase del processo. Le storie di vita dei tipi immaginati ha consentito di stilare una lista di bisogni e di aggregarli per gruppi. Si va dal bisogno di supporto alla genitorialità al sostegno nella ricerca di lavoro e nel superamento della precarietà lavorativa, all’integrazione tramite l’affermazione dei diritti civili, spazi per lo sviluppo dei propri interessi, di liberazione della creatività, di fruizione artistica e culturale, di spazi di lavoro, di co-working e di condivisione di idee, di socialità e di comunità in generale.

Anna, quarantatré anni, vive a Napoli da sempre con il marito, che lavora saltuariamente e a nero, con il quale ha due figli. Percepisce il reddito di cittadinanza perché non trova lavoro: sostenere tutte le spese di ogni mese è davvero dura. Il suo desiderio è quello dell’emancipazione della famiglia intera – un lavoro per il marito, lo studio per i figli. Anna stessa vorrebbe diventare indipendente economicamente ma si abbatte, perché trova molto difficile riuscire a lasciarsi alle spalle una condizione che la fa sentire avvilita. I problemi quotidiani condizionano la vita della famiglia e ci vogliono forza e tempo per farvi fronte. Anna è però una persona molto precisa, conosce bene il quartiere in cui vive e la sua comunità, è benvoluta, cucina molto bene e sa star dietro all’organizzazione di momenti comunitari. La sua capacità di essere empatica e puntuale e la sua voglia di riscatto la rendono un membro prezioso della comunità.

Qui è possibile leggere dei diversi momenti di cui si è composto il laboratorio in ciascuno dei due giorni. Oltre a riportare chi ha preso parte ai laboratori d’ideazione gli scopi dell’iniziativa, sono stati individuati alcuni punti rilevanti delle dichiarazioni d’uso dei rispettivi beni comuni, in quanto obiettivi d’impatto dell’operazione laboratoriale: favorire la partecipazione, il coinvolgimento diretto, la cooperazione sociale; favorire la trasmissione dei saperi e lo sviluppo della persona; favorire l’accessibilità e la vivibilità del territorio avendo cura delle relazioni; generare e attivare risorse comunitarie. Durante la pratica laboratoriale, poi, è stato costante il rimando al precedente lavoro di mappatura delle attività degli spazi – sempre qui è possibile consultare un resoconto in merito.

Elena, ventisei anni, sta concludendo il proprio percorso di studi universitario, da fuorisede. Nel tempo lasciato libero dallo studio è sempre impegnata con lavori saltuari: al bar, ma anche occupandosi di grafica e progettazione. I suoi interessi prevedono un luogo in cui poter condividere le proprie passioni e confrontarsi in merito, cosicché sia per lei possibile trarne una dimensione professionalizzante. Estroversa, creativa, con una mente aperta alle innovazioni e alle nuove occasioni, a Elena piacerebbe restare a Napoli dopo la laurea. La città e i beni comuni guadagnerebbero, dalla sua permanenza, in termini di professionalità e di capacità relazionale. Per fondare la propria autonomia, per costruirsi una dimensione di vita piena e realizzata, Elena ha bisogno di un contesto urbano che le offra occasioni di approfondimento culturale e di cura per il proprio tempo libero, di contesti relazionali significativi, di iniziative che la coinvolgano, di occasioni professionali soddisfacenti.

I due laboratori d’ideazione, partecipati ciascuno da ventiquattro e ventotto persone, hanno visto un momento di restituzione realizzato come messa in scena di quanto immaginato e prodotto durante il lavoro collettivo. I risultati del laboratorio, in termini immaginativi, hanno identificato delle possibili risposte a delle domande inerenti i bisogni degli archetipi tratteggiati. Tali risposte disegnano un mondo possibile e manifestano, a loro volta, l’esigenza che si metta in moto l’interrogazione circa le modalità gestionali e di decisione relative al come realizzare e sostenere le attività. Non solo: hanno anche generato un elenco di indicazioni per gli interventi sugli spazi da realizzare tra quelli che occorreranno con i lavori alle strutture finanziati secondo progetto.

Quali luoghi e attività sono stati immaginati? Ecco qualche esempio: uno spazio di scambio intergenerazionale in cui si impara lavorare con l’uncinetto attivando un processo di alfabetizzazione digitale, che si sostiene attraverso la vendita degli artefatti tramite un’apposita piattaforma; la costruzione di un inventario librario condiviso tra beni comuni, fondi privati, spazi di biblioteche et cetera; gruppi di acquisto solidale che abbiano a disposizione spazi comuni per l’incontro, per poter cucinare e mangiare insieme e, in generale, organizzare momenti di condivisione del tempo libero; una scuola d’italiano con lezioni di lingua basate sullo scambio linguistico, specificamente dedicate alla ricerca di un’abitazione e alla conoscenza del territorio, in funzione dell’attivazione nelle strutture pubbliche dei servizi di supporto e mediazione.

Lo sforzo di immaginazione dei laboratori, se dapprima si è concentrato sull’elaborazione delle figure dietro ai bisogni espressi da persone in carne e ossa, rilevati attraverso le fasi di indagine, si è dunque concentrato sulla ricerca delle soluzioni. Entrambi i passaggi di invenzione finzionale ci lasciano intravedere il potenziale narrativo dei beni comuni, e quest’ultimo guida l’insieme delle nostre inclinazioni e dei nostri desideri verso una trasformazione del contesto urbano all’insegna della metodologia, delle pratiche e dei meccanismi che le comunità dei beni comuni come quelle dello Scugnizzo Liberato e dell’Ex-Opg sperimentano da diversi anni. Si tratta di un patrimonio culturale – nel senso di ciò che orienta le scelte degli esseri umani e rende possibile che si esprimano, si relazionino e agiscano – che le comunità dei beni comuni hanno fondato e che rientra nella loro disponibilità di utilizzo presente e futura. Si tratta, altresì, di un patrimonio a disposizione della città, degli abitanti e delle abitanti, chiamati e chiamate a cogliere un’opportunità per affermare le proprie possibilità di vita, alla realizzazione di un desiderio di miglioramento urbano, alla costruzione di un orizzonte cittadino collettivo finalmente diverso, in cui a chi vive nei quartieri sia facile riconoscersi.

Quello che sto ricostruendo, un articolo alla volta e attraverso il racconto del percorso di co-progettazione Ad Uso Civico e Collettivo, è un costrutto metodologico di comunità a più facce, un poliedro di politica di partecipazione e di mutualismo, quasi un modello aperto e multi-livello di organizzazioni di vita cittadina possibili, grazie al quale si dischiude, alla coscienza pratica, un orizzonte sperimentale di urbanesimo progressista. Chi scrive ritiene che quella della “città dei quindici minuti” – così come altre calate dall’alto, ma è per fare riferimento a un esempio conosciuto – non sarà mai una proposta valida, concreta e preferibile, semmai un’opportunità retorica diffusa dagli uffici di marketing per supportare operazioni affaristiche e processi di estrazione di valore dalle città, episodici o di lungo periodo che siano. Il fatto è che, però, non tutte le coscienze progressiste sono poi così confuse e irrimediabilmente perdute, obnubilate, nonostante si pensi e si dichiari spessissimo il contrario. E altrettanto spesso lo si possa ravvisare guardando agli episodi della vita pubblica e civile e ai suoi dibattiti mainstream, lo ammetto. Delle strade politiche percorribili, per il futuro delle città, invece, esistono eccome. I beni comuni rappresentano un nuovo urbanesimo? Certamente non ancora, e ciò dipende dallo spessore del lavoro politico che le comunità mettono in atto. Però, chissà? Potrebbe diventare il finale della storia a cui accennavo all’inizio. Favorire il riconoscersi degli e delle abitanti in comunità dall’identità viaggiante verso il domani, a patto di cogliere il portato delle soggettività reclamanti soluzioni che rafforzano un’idea universale e progressiva di convivenza civile, può costituire il primo passaggio per aprire le porte a un urbanesimo che sia qualitativamente e quantitativamente differente dalla contingenza storica in cui ci troviamo immersi: una città dei mille diritti. Inizierò l’esplorazione di tale possibilità attraverso il racconto del prossimo articolo.


Cosa ne facciamo di questi spazi?