Come lo facciamo

Un bene comune non può prescindere dall’esistenza d’una comunità che emerga e che risponda all’esigenza diffusa di avere cura di un bene che viene percepito come sottoutilizzato (p.e. non può esserci un bene comune curato da un solo individuo). La comunità regola l’uso temporaneo di un bene che resta di proprietà pubblica, come pure tali restano le spese di manutenzione straordinaria e i costi vivi (p.e. utenze, guardiania). Con un atto di disobbedienza civile, da un ‘no’ costruttivo e non distruttivo, gli individui si attivano autonomamente e politicamente per cercare di modificare quello che non approvano delle loro realtà territoriali. È, quindi, un atto di rivolta contro uno status quo, un ordine di cose che si intende cambiare, non per sé, ma per coloro coi quali si condivide quel tempo e quello spazio. In tal senso, incarna quella frase camusiana che è alla base di molte attiviste e attivisti civili e politici: “mi rivolto, dunque siamo”. Declinando la propria libertà non in modo individualistico e atomizzante, né passivamente, ma come libertà di partecipare, di attivarsi, di agire, e di unirsi in comunità si interferisce nelle dinamiche che non si condividono sul modo in cui il proprio mondo sia organizzato ed eterodiretto. 


Il principio di cura 

Il principio di cura è centrale nella sperimentazione dei beni comuni e si declina come cura (reciproca e diffusa, mai delegata ad altr*) del bene (non per sé ma per tutt* in quanto non è proprio di nessun* ma comune a tutt*, anche a coloro che sono ancora da venire), come cura di chi è parte di o attraversa la comunità e lo spazio del bene comune, cooperando in forme di democrazia diretta, antitetiche ai meccanismi competitivi tipici della società attuale, sempre più improntati sull’individualismo, la separazione dei saperi, una visione non organicistica dell’individuo, basati sulla sopraffazione e la prevaricazione dell’altro più che nell’esaltazione della sua libera espressione. Per questo motivo, principio cardine dei beni comuni è il rifiuto di qualsiasi forma di razzismo, sessismo, fascismo e ogni altra specie di discriminazione che limiterebbe l’accoglienza ed escluderebbe qualcun* dall’uso e attraversamento del bene comune. I beni comuni nascono dall’esigenza di un fare insieme, di avere spazi in cui sia possibile innescare incontri inediti fra pezzi sociali diversi fra loro, dalle diverse appartenenze ideologiche e con valori diversi ma accomunati dal bisogno condiviso di cura reciproca, in una visione dell’umano come creatura eminentemente relazionale e legata ai propri simili dall’interdipendenza che li vede connessi e accomunati. L’alterità culturale è, quindi, garantita nelle pratiche dei beni comuni che la preservano conducendo le loro sperimentazioni salvaguardando sempre i principi di inclusione, di libero attraversamento, di accoglienza, non indifferenti all’altr*, ma indifferenti alle differenti appartenenze, retaggi, provenienze, diversità culturali e di confessione. 

Il principio di inclusione e la libertà attiva di com-partecipazione

La cura è intesa come conseguenza dell’interessarsi alle sorti dell’altro, nel sentirsi partecipi delle sorti di chiunque sia altri da sé e quindi, compartecipare e co-sentirlo come parte integrante e imprescindibile del proprio benessere. È una cura che discende direttamente dall’I care che Don Milani pose all’entrata della sua aula, nella scuola di Barbiana, in risposta al menefrego di stampo fascista, che consentiva, una volta disumanizzato l’altro, d’intenderlo come corpo estraneo della società, da poter discriminare e di cui poter essere privi. Includere l’interesse di tutti nel proprio è quel cambio valoriale che viene attuato nelle comunità emergenti di un bene comune urbano e che, una volta sotteso a qualsiasi azione civile che si vada a intraprendere, garantisce la massimizzazione, con le attività poste in essere, dell’interesse di tutte e tutti, e quindi di ciascuno. È un modo di intendere la vita sociale e anche il perseguimento della propria felicità, in unione, e mai in contrapposizione, con quella di tutti. E’ in tal senso che un bene comune persegue il bene comune, mossi dalla consapevolezza che non si può fare il bene proprio se non si fa anche quello altrui e che le condizioni dell’altro non solo tangono le nostre, ma le minano, essendo le sorti di tutte e tutti legate insieme fra loro. Perciò in un bene comune nessuno può essere escluso in nessun caso, a meno che non sia escludente, e non possono esistere diversi, inaccettati, o marginalizzati: aderire a un bene comune significa comprendere che non esiste un interesse privato né esiste un bene che possa prescindere da quello collettivo e che la felicità si può ottenere non massimizzando la propria, come vuole il mercato, ma decrementando quella di tutte e tutti quelli con cui condividiamo il mondo e le sue risorse. Attraverso l’incontro con l’altro ne conosco interessi, cultura, valori e bisogni, riconosco i miei, riconosco che non siamo ma che intersiamo, e posso esercitare quell’empatia e quella simpatia che ci consentono di esperire la nostra natura relazionale e formare una comunità interdipendente che pratichi la condivisione.


L’assemblea

Tutti i beni comuni hanno questo momento. È durante l’assemblea che l’intera comunità si dà appuntamento per incontrarsi, aprirsi e per partecipare alle decisioni che regolano l’uso del bene. L’assemblea è il cuore pulsante di un bene comune: dove le varie parti hanno modo di incontrarsi e conoscersi, a prescindere dai propri interessi e valori specifici, e declinare, nell’atto pratico, tutt* insieme quella libertà non passiva e individualistica, ma collettiva e diffusa, attiva, in cui ci si fa carico delle proprie responsabilità verso l’altro. Quando ci si siede in cerchio in assemblea si ha cura di ascoltare l’altro e accoglierlo nella comunità che si andrà costruendo insieme con lei o lui. È durante l’assemblea che si intessono le relazioni sociali: il sostrato vivo che è la linfa di un bene comune. È il momento politico in cui ci si incontra non per essere vidimati o approvati, o per rendere conto del proprio attraversamento e uso del bene comune, o tantomeno per fare proseliti e lasciarsi andare all’esposizione narcisistica e autoreferenziale delle proprie opinioni, come in un talk show, ma per riuscire meglio a comunicare e condividere il proprio sé all’esterno e, incontrandosi, dar innesco a nuove pratiche e sinergie. L’assemblea dev’essere sempre libera e aperta, da chiunque attraversabile in qualsiasi momento, e le decisioni, oltre che la convocazione, comunicate in modo trasparente. Va convocata almeno una volta al mese, salvo diversamente previsto, è informale, e la tensione che la percorre è quella all’ascolto attivo volto a una partecipazione più diffusa possibile. Durante il suo svolgimento si possono calendarizzare le attività per assicurare un’alternanza dell’uso delle strutture e singoli spazi, e istituire tavoli tematici a cui rimandare (vd “cosa facciamo“), oltre ad accogliere proposte e iniziative da parte di chi si accosta, per la prima volta, all’uso di quel bene comune (che saranno sempre accettate, laddove vi siano le forze necessarie, lo spazio e il tempo e se non siano escludenti o violino i principi di antifascismo, antisessismo e antirazzismo). 

L’autogoverno: il metodo del consenso

A differenza del modo in cui il mondo è organizzato, l’assemblea decisionale di un bene comune non persegue efficacia ed efficienza decisionale (anzi), ma ha come fine l’inclusione e la composizione degli eventuali conflitti, e il contemperare degli interessi individuali e privati a favore dell’interesse comune, condiviso e più largamente diffuso. Per far ciò, ogni decisione viene assunta senza ricorrere a sistemi di votazione o maggioritari, ma si discute fino a che tutte le componenti dell’assemblea siano d’accordo su una questione, su cui, ad ogni modo, è sempre possibile tornare a discutere, in qualsiasi momento, in futuro (vale a dire che nei beni comuni come nell’assemblea non vince la maggioranza, perché nessuno vince e, soprattutto, nessuno perde, mai, ma tutt* decidono insieme, sempre). Questo metodo garantisce la minimizzazione del dissenso, in modo da arrivare a una decisione quanto più unanime e condivisa possibile, sempre per garantire un esercizio libero e ampio d’una libertà decisionale che sia quasi capillare. Premesso che la comunità di un bene comune non è formalmente costituita, non è definita, né è data, ma è in continuo divenire, unitamente al metodo del consenso diffuso, non è possibile ricondurre la responsabilità riguardante l’uso di un bene comune a un singolo individuo.