Cosa facciamo

Le attività messe in pratica nei beni comuni napoletani sono le più varie e dipendono dalle proposte avanzate da chi attraversa la comunità o intervenga in assemblea, facendosene, ciascuno, portavoce e portatore a seconda dei valori e delle iniziative che sente l’urgenza di diffondere. L’intera comunità del bene comune provvederà, secondo le sue forze, energie e disponibilità degli spazi e dei mezzi di cui si è autodotata, ad accogliere le iniziative, offrire loro supporto logistico in base all’esperienza accumulata, e comunicarle al meglio delle proprie possibilità. Per loro vocazione, i beni comuni napoletani si sforzano di essere collettori e contenitori di iniziative dal basso. In quanto centri di cultura alternativa e alterattiva, interdipendenti e non dipendenti, i beni comuni non seguono una specifica linea politica né vi è una direzione artistica cui le attività proposte bisogna si allineino o siano sottoposte, come un filtro selettivo. I beni comuni nascono proprio in opposizione a questo tipo di logica gerarchica e piramidale, scardinando ruoli e presunte autorità che si ergano a diffusori di cultura di serie A e di serie B, cultura popolare, kultura o sottocultura. Grazie allo spirito di accoglienza che anima le comunità sempre libere e sempre diverse, a seconda di chi le attraversi in quel momento, dei beni comuni, la pluralità culturale e l’alterità valoriale, contenutistica e artistica viene garantita, preservando la sua biodiversità.

Politica dal basso, autoformazione e autocoscienza

In un bene comune, oltre alle iniziative artistiche e culturali, si accolgono e autorganizzano incontri di tipo politico più che partitico, in cui si prova a orientare il riflettore del pubblico interesse su tematiche delicate e poco affrontate, o perché lontane geograficamente o perché contrarie alle logiche del mercato e dei grandi interessi, provando a dettare dal basso l’agenda politica e dirottare la pubblica opinione su sentieri meno battuti: in tal senso, i beni comuni napoletani ospitano vari comitati di iniziativa popolare, dando loro accoglienza negli spazi, provando, per quanto possibile, a incentivare la cittadinanza attiva e responsabile, il sentimento di solidarietà politica e la cooperazione fra i popoli, oltre che ospitando i singoli eventi o i tavoli di discussione aperti al pubblico su una determinata tematica. Ogni bene comune napoletano ha una sua vocazione peculiare e declina il suo impegno civile e politico in maniera differente a seconda delle e dei componenti della comunità che lo animano e i valori di cui sono latrici e latori. In un bene comune, quindi, sono possibili tutti i tipi di attività (doposcuola, insegnamento dell’italiano ai cittadini stranieri, supporto psicologico, cure mediche gratuite, sportelli di ascolto, palestre popolari, tavoli di autocoscienza) che non vadano contro il rispetto dell’individuo. A questi si affiancano anche laboratori e workshop che consentono a chi non disponga della possibilità di avere uno spazio privato di diffondere la sua arte, il suo know how, pratiche di sperimentazione artistica, diffondendoli a chi lo desideri, a prezzi popolari e non da mercato. Gli spazi, spesso, accolgono anche residenze artistiche o fungono da sala prove, coworking o da sala studio per le lavoratrici e i lavoratori dell’immateriale, del cognitivo, dell’arte e dello spettacolo che riescono a emergere con fatica e a non trovano il sostegno necessario per condurre le proprie ricerche e sperimentazioni. In tal senso, in un bene comune si accolgono anche iniziative private, o ristrette, ma non in modo privatistico in quanto l’apertura al pubblico è sempre salvaguardata grazie a una comunicazione trasparente e l’attenzione riservata al contemperare i legittimi interessi privati con l’interesse più alto che è quello di tutte e tutti: l’interesse comune che i beni comuni sono chiamati sempre e comunque a perseguire in via prioritaria.


Eventi pubblici

Le iniziative che un bene comune può ospitare possono andare, quindi, da cineforum o rassegne cinematografiche per dare particolare risalto a piccole produzioni, produzioni locali od opere poco valorizzate dalla grande distribuzione, regolata da interessi di mercato e che perciò non mira a garantire un libero accesso anche alle culture minoritarie o marginali (spesso più sperimentali artisticamente e politicamente più schierate). Possono essere dei concerti dal vivo, magari di band emergenti o che conducono sperimentazioni che il mercato standardizzato non riesce a comprendere. Possono essere festival per veicolare un altro tipo di cultura (musicale, tradizionale, culinaria, artistica, fumettistica), in maniera gioiosa, dando valore a identità che resterebbero altrimenti sommerse e promuovendo l’incontro fra alterità e modelli culturali alternativi, attraverso l’interscambio e, in tal modo, allargando la propria comunità per comprenderne altri (è in tal modo che viene garantita l’apertura della comunità e la sua natura porosa, accogliente e orizzontale). Detti festival non rispondono mai, però, a logiche competitive ma cooperative, distinguendosi, in tal senso, dalle logiche di mercato che, al contrario, prevedono sempre un vincitore e dei perdenti, una cultura alta e una bassa, un merito e un talento individuali riconosciuti a discapito di altre e altri, e del genio collettivo, creando divisioni e segmentazioni che frammentano anziché creare una comunità (non amalgamata o omologata ma) allargata.

Gratis, non gratuito: economia sì, ma del dono

Gli eventi pubblici non sono mai soggetti a sbigliettamento e sono sempre liberamente attraversabili, con l’intento di diffondere cultura: al più viene chiesto un contributo libero e volontario per remunerare il lavoro delle artiste e degli artisti, e per sostenere le spese vive che consentono alle volontarie e ai volontari e a chi abita, popola, attraversa e anima il bene comune di valorizzare al meglio l’impegno di tutte tutti. Nessun’attività, nessuna proposta accolta in assemblea, nessuna iniziativa (laboratori, seminari, workshop, concerti, proiezioni, performance, spettacoli, conferenze, gruppi di studio o di lavoro), quindi, per nessun motivo, può richiedere ai partecipanti un contributo economico vincolante e, quindi, potenzialmente escludente che limiti l’attraversamento della comunità d’un bene comune. Predette comunità, durante la promozione di eventi pubblici, seminarali o laboratoriali, accettati e calendarizzati dopo il passaggio in assemblea, possono chiedere una sottoscrizione libera e non vincolante, volta a contribuire la raccolta fondi per autosostenersi, per far fonte a piccole spese vive, per dotarsi di mezzi di produzione che poi verranno offerti all’uso libero della cittadinanza o per autorecuperare parti del bene comune da restituire a un uso più accessibile.


Tavoli tematici autorganizzati

Nei beni comuni l’uso dello spazio non è mai esclusivo di qualcun* (né della comunità che lo cura più assiduamente né di chi lo ha storicamente liberato inizialmente) ma sempre collettivo, trascendendo quell’approccio privatistico di un bene che ne assegna la fruizione a qualcuno a prezzo dell’esclusione di qualcun altro. Per far ciò, la gestione di un bene comune esula delle forme private o pubbliche, ma è sempre un’autogestione dell’intera comunità, tramite l’assemblea, che calendarizza l’uso degli spazi, affidandoli temporaneamente a chi ne richieda l’uso, garantendo la turnazione e il ricambio continuo che ne preservino l’inclusione quantopiù possibile diffusa. In tal senso l’uso viene programmato (insieme, non ci sono direttivi o gerarchie, formali o informali) per consentire, a tutte e tutti, un accesso che sia libero, (auto-)organizzato e garantito, mai privato o esclusivo. I beni comuni possono concordare altri e ulteriori momenti di confronto, oltre le assemblee, sempre caratterizzati da una comunicazione che sia trasparente e ne garantisca la fruizione più ampia possibile a tutta la cittadinanza. I beni comuni sono liberi di autorganizzarsi, nello specifico, convocando tavoli, o focus group, che funzionino da sottoassemblee, il cui scopo sia quello di non gravare sull’assemblea con decisioni inerenti questioni meramente organizzative e logistiche, divisi per gruppi di affinità o di interesse o riguardanti uno spazio particolare. In alcun modo quest’organizzazione che cerca di rendere i tempi più efficienti, deve privare di significato il momento decisionale diffuso e partecipato che è, e resta, quello assembleare, dov’è possibile a tutta la comunità, potenzialmente infinita, incontrarsi periodicamente e coltivare la relazione e il piacere dell’incontro con gli altr* da sé.